Il Vangelo della Domenica con Albino Luciani: 3 aprile 2022

“Il Vangelo della domenica con Albino Luciani”

Domenica 3 aprile 2022: V del tempo di Quaresima (C)

(Isaia 43, 16-21; Salmo 125(126); Filippesi 3, 8-14; Giovanni 8, 1-11)

                Iniziamo l’ultima settimana del tempo di Quaresima con le letture offerte dalla V Domenica, ciclo C del rito romano, di questo tempo.

                La prima lettura propone un brano tratto dal capitolo 43 del profeta Isaia. In esso troviamo all’inizio la memoria degli eventi passati e in particolare l’episodio miracoloso dell’apertura delle acque del mar Rosso per il passaggio del popolo di Dio e la richiusura sull’esercito del faraone d’Egitto; ma poi è lo stesso Signore che fa una dichiarazione diretta, usando parole sue: “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche!”. Qualcosa di nuovo e di inedito sta per avvenire nel segno del germoglio, della strada aperta nel deserto, dei fiumi nella steppa… tutti fenomeni per i quali gioiscono addirittura le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi. Davanti a questo spettacolo anche il popolo di Dio “celebrerà le mie lodi”. Non è più solamente le memoria passata che conta, memoria che può venire anche meno, ma ciò che importa è la gratuità del futuro intervento promesso dallo stesso Signore.

                La memoria delle grandi opere del passato è il centro del salmo 125(126): la sorte di Sion, il monte di Gerusalemme, è ristabilita; la sorte del suo popolo pure è ristabilita; e tutto questo genera sorriso, gioia (termine ripetuto più e più volte), raccolto pieno dopo il tempo della semina.

                “Anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù”: questa affermazione forte di San Paolo Apostolo è al centro del brano odierno, tratto dalla sua lettera ai Filippesi. Queste parole sottolineano con forza che l’opera maggiore, per il discepolo diventato apostolo, l’ha compiuta e la compie il Signore Gesù: il resto, lasciare perdere tutto il resto, la giustizia derivante dalla Legge, il pensare di avere già raggiunto la méta, camminare rimanendo voltato indietro, non conta più nulla per Paolo. Egli è nella fede in Cristo Gesù che conosce, insieme alla potenza della sua risurrezione, alla comunione alle sue sofferenze, conforme alla sua morte: tutto questo per camminare sulla via certa della fede e della speranza della risurrezione dai morti. Questo è il centro della nostra fede e della fede della Chiesa.

                Il brano di Giovanni 8 ci narra dell’episodio della donna adultera. Di fronte al peccato manifesto, che mina anche socialmente il vivere insieme come popolo, la legge parla chiaro ed è dura, sì, ma da applicare “alla lettera” proprio per “preservare” il popolo dal peccato stesso: e il peccatore, in tutto questo, che fine fa? Viene condannato insieme al suo peccato! Questa è una conclusione logica che non fa una piega: gli scribi e i farisei si aspettano questo da Gesù, questo nuovo rabbì che è apparso con un nuovo insegnamento e che pretende essere il Messia. Dentro tutto questo Gesù prende tempo (scrive per terra) e non risponde subito alla “foga” giustizialista dei suoi interlocutori: la sua risposta non solo è originale ma è radicata nella tradizione giudaica del processo giudiziale giudaico che “si appoggiava essenzialmente sulla probità dei testimoni. I giudici non badavano tanto alle prove in se stesse, quanto alla probità di coloro che le fornivano. Se i testimoni erano degni di fede, bastava: si pronunziava la sentenza e il testimone aveva il diritto e il dovere di scagliare la prima pietra” (Commento della Bibbia liturgica, pag. 1360). Vince la “solidarietà indotta” tra peccatori: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. Ma Gesù aggiunge la vera novità: il perdono del peccatore, la condanna del solo peccato e la possibilità del perdono, di ricominciare.

                Nell’omelia per la festa del Redentore del 1974 il Patriarca Albino Luciani così si esprimeva a riguardo dell’amore di Dio e del peccato dell’uomo di ogni tempo:

1. Da parte di Dio, noi siamo oggetto di amore intramontabile. Fossimo anche dei figli prodighi, delle pecorelle smarrite, egli resta sempre il padre che ci aspetta a braccia spalancate, il pastore che viene a cercarci. 2. Diventare figli prodighi e pecore smarrite è il dramma principale della nostra vita. Esso avviene quando commettiamo il peccato nel senso pieno della parola; quando cioè non riconosciamo più Dio come padre, rifiutiamo la sua amicizia e alleanza. 3. Lo so: soltanto Dio in definitiva può giudicare sulla vera portata morale delle nostre azioni; non c’è dubbio, però, che noi abbiamo, purtroppo, il potere di offendere il Signore gravemente, se esiste piena avvertenza, deliberato consenso e vera mate- ria grave. Sarà esagerato vedere peccati gravi dappertutto, ma è esagerato anche il non trovarne mai. Dice il libro dei Proverbi (30,20): «Tale è la condotta della donna adultera: mangia e si pulisce la bocca e dice: “Non ho fatto niente di male!”». 4. La tendenza, oggi, è di passar sopra ai peccati personali e di denunciare, invece, i peccati sociali. Ebbene, il vero peccato è sempre personale. Soltanto per analogia possiamo parlare di peccati sociali, triste risultato di tanti nostri peccati e responsabilità e omissioni personali. Così, la guerra, la tortura, il razzismo, la strumentalizzazione e lo sfruttamento delle persone, la società piena di molte ingiustizie e cose sbagliate in cui viviamo. Dire che Cristo ha voluto liberarci anche da queste cose è giusto. Denunciare queste colpe sociali è bene, può essere doveroso, purché non diventi un alibi, un battere il mea culpa sul petto degli altri invece che sul mio petto. San Paolo, penso, ripeterebbe, oggi, in proposito, quanto scriveva a Timoteo: «Questa è parola sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo a salvare i peccatori e di questi il primo sono io» (1Tm 1,15). 5. San Paolo, dunque, si batteva il petto, pensando ai suoi peccati personali. Dobbiamo fare altrettanto, se vogliamo lasciar- ci investire dall’azione del redentore. Ciascuno conosce se stesso. Quante cose ci permettiamo nell’abito, negli spettacoli, nei divertimenti, nelle relazioni, che il Signore disapprova e che la nostra coscienza invano tenta di giustificare! Come è scemato il senso del dovere sia in basso che in alto! Un ministro, di recente, ha dichiarato che a Roma, in certi uffici, l’assenteismo degli impiegati supera il 50 per cento; ciononostante, quegli impiegati, il 27 del mese, si presentano con la coscienza tranquilla a riscuotere lo stipendio intero! In alto, avviene spesso che si dovrebbe provvedere, intervenire, parlare; invece si tace, si rimanda, si scarica su altri, si lascia correre per non avere noie! E la gente, intanto, avverte sempre più che l’autorità non è più autorità; si diffonde il disagio, lo sconforto, qualche volta la paura. Si parla tanto di solidarietà, eppure mai come oggi c’è il disinteresse per il bene comune e vigoreggiano divisioni e correnti; neppure il comune pericolo grave sembra capace di far comprendere alla gente che siamo tutti in un’unica barca, andiamo incontro alla stessa sorte. 6. Mai, quindi, come oggi c’è stata necessità di ritorno a Dio. Nella sua misericordia infinita, però, Dio ha qui un suo sistema. Quando vede un cristiano lasciare il peccato e tornare a lui, egli non guarda tanto al punto di partenza, quanto a quello di arrivo. Non chiede tanto quanti e quanto gravi sono i pecca- ti abbandonati. Fossero anche a montagne, egli cancella tutto. Chiede, invece: con quanto amore torna a me quest’anima? Mi ama sul serio? È decisa a rivivere la mia amicizia con una vita nuova, riparando al passato? Questo gli preme. (Omelia per la festa del Redentore, 21 luglio 1974, O.O. vol. 6 pagg. 379-381)

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